La Riflessione di Valentino Garofalo / Le scorie della vecchia politica

Opinioni sull’esperienza alle ultime Amministrative e su un civismo che non è piaciuto

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Dal professor Valentino Garofalo, referente politico del movimento "Viviamo la città", riceviamo e pubblichiamo. In questo articolo riprendo alcuni passi della mia recensione (1-2-3) al libro di Bruno Arpaia, “Per una sinistra reazionaria” (vedi “Da Bitonto” di Aprile), e di quella di Nicoletta Tamberlich (4-5-6-7) al libro di Marco Damilano, “Processo al nuovo” (vedi “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 22 giugno). Per riflettere sulla crisi attuale della politica e sul modo possibile di superarla.

1) «È necessario… elaborare un nuovo paradigma della politica, più adeguato alle sfide del nostro tempo, che preveda una “decostruzione” drastica della tradizionale “verticalità” e una difficile, lenta, faticosa “ricostruzione” di una dimesione “orizzontale”, nella quale la capacità di istituire relazioni, di corresponsabilizzare e di condividere prevalga sulle semplici tecnologie del potere “esercitato su” (territorio, comunità, individui, assunti come destinatari e nel migliore dei casi utenti)».

2) «Bisogna… tornare a inventare insieme. Ricordando però… che qualunque invenzione non nasce dalla semplice fantasia, inconsapevole e sfrenata, ma dalle costrizioni; è un incrocio acrobatico di utopia e realismo, di fantasia e buon senso».

3) «Recuperare dall’esilio il concetto di comunità… è il contesto naturale di una “democrazia di prossimità”, più diretta, più di base, fondata su una partecipazione più attiva e sulla ricostruzione di nuovi spazi pubblici. Così intesa… va oltre l’io, recuperando la terza parola, la più dimenticata, della Rivoluzione francese: fraternità (solidarietà), il noi».

4) «Per decenni l’Italia ha inseguito il mito del nuovo inizio. Il nuovo ha modellato tutte le identità politiche: la sinistra, la destra, il centro… nuovo si è presentato il Cavaliere… Mario Monti… il Movimento Cinque Stelle… il Renzismo… ora sembra smarrito, per incapacità di elaborazione, fragilità culturale, inconsistenza progettuale… il nuovo ha consumato se stesso… con il passato ha buttato via anche il futuro. I suoi paladini si sono rivelati clamorosamente inadeguati alle sfide, hanno deluso chi voleva cambiare e tradito chi ci aveva creduto».

5) «Una politica… appiattita sui risultati elettorali, sui numeri, sui bilancini e i contrappesi interni, sulla drammatica autoreferenzialità dei suoi esponenti, nell’incapacità di innescare qualsiasi progetto di cambiamento».

6) «Il nuovo si è smarrito. Sia Renzi sia Grillo hanno perso per strada la loro carica di cambiamento. Proseguiranno a presentarsi come il nuovo… ma nuovi non sono più. Il nuovo è smarrito. E questa è una responsabilità in più per chi farà politica».

7) «Il cambiamento non è spettacolo, non può essere affidato ai giocolieri o ai salvatori della Patria… serviranno gli uomini della transizione… figure che in una situazione di crisi non scommettono sull’individualismo, sull’atomismo, sulla rabbia dei singoli che si sentono lasciati soli, ma che al contrario “partecipano” a puntellare il tessuto che tiene insieme una società. È questo il nuovo che serve… e il nuovo… è sempre una costruzione, una ricostruzione. Una rigenerazione».

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Ho vissuto in prima persona, dall’interno del “cartello elettorale” tra due liste civiche, “Viviamo la città” e “Progetto comune”, contraddizioni e fibrillazioni di una politica locale che ha l’ambizione di presentarsi come “nuova”, ma che non riesce nei fatti a liberarsi delle scorie della “vecchia”. E in confronti privati e pubblici ho manifestato apertamente, senza remore, perplessità e critiche. Ma i cosiddetti “referenti” delle liste sopracitate, Raffaele Picciotti e Luca Scaraggi, hanno fatto finta di niente. Non ce n’è traccia neanche nel documento del coordinamento provvisorio, redatto come se tutto andasse bene per tutti. E invece, nonostante il buon risultato elettorale, va male. Per una serie di ragioni che vado a precisare.

1) Il civismo non può ridursi ad essere la foglia di fico che nasconde le negatività del partitismo, perpetuandole;

2) Non può predicare “partecipazione e condivisione” e poi farsene beffe;

3) Non può sedurre i giovani e poi abbandonarli, peggio bidonarli (vedi Pasquale Castellano);

4) La linea politica non può “prima” essere decisa dai vertici e “poi” essere legittimata dalla base: è la negazione di quella “cittadinanza attiva” di cui spesso si riempie la bocca Raffaele Picciotti;

5) Documenti approvati all’unanimità e sottoscritti dai partecipanti ad un’assemblea regolarmente convocata non possono essere considerati carta straccia, se non igienica, perché contrari agli “interessi” dei vertici;

6) Non si può invocare la trasparenza (come spesso fa Luca Scaraggi) e poi usare il marchingegno della segretezza del voto per far passare a maggioranza “precedenti” accordi, stipulati “sottobanco”;

7) Queste cattive pratiche, da “politicanti” e non da “politici”, dilaniano il gruppo dei sostenitori, mettendo a repentaglio il “mai chiarito” progetto politico;

8) Si antepone la conquista e la distribuzione del potere a tutto, facendo giustizia sommaria dei dissidenti;

9) I valori e la gratuità dell’impegno personale vengono sacrificati sull’altare del “do ut des”, delle prebende, concesse solo agli “yes-men” del cerchio magico dei referenti.

In definitiva, così facendo, si minano le basi della “democrazia partecipativa”. Per questo, in più occasioni, ho parlato di “deriva oligarchica”.

So bene che anche la democrazia prevede la gestione della cosa pubblica da parte di pochi (i rappresentanti), ma so anche che questi pochi (eletti o referenti) nel farlo devono rispettare il mandato ricevuto dai molti, i rappresentati, sostenitori a vario titolo del progetto politico, quale che sia. È l’ABC della democrazia.

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Tirando le somme, dobbiamo non affidarci a “uomini soli al comando”, ma sforzarci di trovare un punto d’incontro e di equilibrio tra le “istanze” della democrazia partecipativa e le “esigenze” della democrazia rappresentativa. Pertanto, attiviamo quanto prima un “processo costituente” che abbia come stella polare la crescita del movimento. E il successo del progetto politico, da definire con l’apporto di tutti.

Altrimenti, con l’astensionismo aumenterà il disincanto, spianando la strada alla “morte della politica”.

Per scongiurarla facciamo nostre le parole di Henry Ford: «Ritrovarsi insieme è un inizio, restare insieme è un progresso, ma riuscire a lavorare insieme è un successo». E ricordiamo di Don Milani che diceva: «La politica è trovare insieme una soluzione. Da soli non si va da nessuna parte».

P.s. Le nuove deleghe assessorili assegnate non prevedono più il Governo Partecipato. È un “de profundis” per noi cittadini vogliosi di partecipare alla gestione della cosa pubblica?