Da produttore di mine a sminatore. Al teatro Traetta la storia di Vito Alfieri Fontana

Fino al '93 era proprietario di un'importante azienda che, a Modugno, produceva mine antiuomo. Fino a quando la suo coscienza gli impone una strada diversa

Stampa l'articolo

Da produttore di mine a sminatore. Da fabbricante di morte a salvatore di vite. È il percorso di redenzione intrapreso dall’ingegnere Vito Alfieri Fontana, un tempo proprietario della Tecnovar, grossa azienda pugliese, con sede a Modugno, che, fino al 1993, progettava, produceva e vendeva mine antiuomo. Fino a quando una profonda crisi esistenziale lo portò a mettere tutto in discussione sé stesso, il suo lavoro e i rapporti con la famiglia. E lo convinse a dismettere l’azienda di famiglia, rinunciando ad una vita nel lusso per seguire la sua coscienza.

Una crisi partita da una consapevolezza. Quello che aveva prodotto e venduto fino ad allora aveva ucciso delle persone. Consapevolezza che, per lui, fu l’inizio di un nuovo viaggio, al fianco delle associazioni umanitarie Emergency e Intersos, nei paesi che sono stati teatro delle guerre nei Balcani, per rimuovere le mine ancora nascoste nel terreno e, spesso, ancora letali.

Un assillo morale simile a quello che, nel film “Finchè c’è guerra c’è speranza”, porta Pietro Chiocca (Alberto Sordi), commerciante di pompe idrauliche riconvertitosi a mercante di armi, a scontrarsi con la famiglia, inorridita dalla scoperta dell’origine del lusso in cui vive. Ma lì, in quel film del 1974, la crisi di coscienza dei protagonisti viene subito spenta, in un finale tutt’altro che lieto, dalla paura di perdere tutti quegli agi e tornare a vivere con i soli guadagni di un modesto commerciante di pompe idrauliche. La coscienza è messa a tacere dall’ipocrisia e l’unico realmente sincero diventa proprio il cinico mercante d’armi, che almeno non si trincera dietro finti scrupoli morali.

Nel caso di Fontana, invece, la coscienza si dimostra più forte della paura.

A raccontare la sua esperienza è lui stesso, in un incontro a teatro in cui è stato anche proiettato “Il successore”, documentario del 2015, diretto da Mattia Epifani e prodotto dall’Apulia Film Commission, che narra la sua storia.

Un incontro organizzato da Anpi - Bitonto, Agesci, gruppi scout Bitonti 1 e Bitonto 3, Cenacolo dei Poeti, circolo Arci Rimescola, Libreria del Teatro, associazione Progetto Continenti, Centro Ricerche di Storia e Arte - Bitonto, Scout d'Eruopa - Bitonto.

Intervistato dal giornalista e direttore del “da Bitonto” Mario Sicolo, Fontana ha sottolineato i diversi episodi che l’hanno profondamente segnato, portandolo alla decisione di cambiare vita: le parole del figlio “sei un assassino”, le lettere di insulti recapitategli e, soprattutto, l’incontro con i suoi contestatori, in seguito ad una “trappola” a lui tesa da don Tonino Bello, che, poco prima di morire, lo aveva invitato ad una tavola rotonda a cui avrebbero partecipato “solo in pochi”. E invece, ad attenderlo, erano in tanti.

«Possibile che lei sogni la guerra per vendere più mine?» fu la domanda di un ragazzo che, così, innescò la profonda crisi di coscienza di colui che, da quel momento in poi, fu un ex produttore di armi. Quella domanda rappresentò l’inizio del suo viaggio alla ricerca delle mine che, a guerra finita, continuavano ad uccidere persone innocenti. Un viaggio nato da una nuova consapevolezza: se si vuole la pace, bisogna preparare non la guerra, come dice l’antica locuzione latina di Vegezio, ma la pace stessa: «Mi sono messo in gioco, perché se vuoi la pace devi preparare la pace. Sui campi ancora pieni di mine antiuomo c’era bisogno di rimuovere pezzi di terreno alla guerra, per restituirli alla pace».

«Mi sono sentito veramente male quando, durante una delle tante operazioni di bonifica nei paesi della ex Jugoslavia, trovai una delle mie mine» racconta l’ospite che, sempre segnato da un’espressione di malinconia, racconta, alla fine del documentario, come la felicità, per lui, sia un sentimento ormai dimenticato, soffocato dal rimorso.

La scelta di Fontana, purtroppo, rappresenta un’eccezione, un caso isolato, che raramente si ripete perché, come spiega lui stesso, vendendo armi «si guadagnano troppi soldi».