La Storia/Guerra fredda. Quando a Mariotto c'erano i missili degli Stati Uniti puntati contro l'Urss

La testimonianza dei residenti della frazione: "Vedevamo passare militari e camion, ma non sapevamo cosa trasportassero. Erano di passaggio e non avevano contatti con i civili"

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CONTESTO STORICO

A marzo Barack Obama ha incontrato a Cuba il presidente Raul Castro. Un evento epocale. Nessun presidente statunitense ha messo piede sull’isola dopo la rivoluzione socialista del ‘53. L’importanza è data anche dal fatto che Cuba fu al centro dell’episodio più caldo della Guerra Fredda, in cui il mondo fu ad un passo da una guerra nucleare. Storia nota. Quel che è meno noto è che il nostro territorio in quegli eventi è stato uno dei protagonisti. Per comprenderne il ruolo occorre fare un passo indietro, fino al 1957.

L’Urss lancia lo Sputnik, primo satellite artificiale. La notizia sconvolge gli Usa che solo l’anno dopo lanceranno l’Explorer. È la Guerra Fredda. Le due potenze iniziano una gara alla supremazia scientifica, tecnologica, bellica, senza scontri armati, se non periferici.

Più che il primato tecnologico russo, a sconvolgere Washington e i suoi alleati è la consapevolezza che Mosca avrebbe potuto dotarsi missili a medio raggio, con testate nucleari, da puntare sull’Occidente. Usa e alleati rinforzano gli armamenti, nel timore di un attacco, installando in Europa missili nucleari puntati contro Mosca: gli Jupiter. A ospitarli sono Turchia e Italia.

Tra il ’61 e il ’62, gli avvenimenti della Baia dei Porci, il fallito tentativo degli americani di spodestare Fidel Castro e la scoperta che a Cuba, i russi stanno installando basi missilistiche, in risposta alle basi Jupiter, innalzano la tensione. Ma nessuno vuole in realtà la guerra nucleare. Iniziano lunghe e difficili trattative. Ed è qui che il ruolo delle basi italiane e turche diventa importante. Sono, infatti, l’oggetto dell’accordo che evita un sanguinoso conflitto. L’Urss smantella le basi cubane a patto che sia fatto lo stesso con quelle nei due paesi Nato.
Finisce, così, la storia del “campo dei missili”.

COSA SI SAPEVA

«Vedevamo passare da Mariotto militari e camion, ma non sapevamo cosa trasportassero. Erano di passaggio e non avevano contatti con i civili. Sapevamo che ci fossero dei missili, ma non eravamo preoccupati, non essendo a conoscenza delle testate nucleari. L’abbiamo saputo solo dopo. Non avvertivamo molto neanche la presenza dei militari» racconta Michele, all’epoca ragazzino che, insieme ad amici, si avvicinava spesso al campo alla ricerca di funghi: «Ricordo che le antenne erano così alte che le luci rosse posizionate in cima si notavano da molto lontano».

Che all’epoca i cittadini non sapessero nulla lo conferma anche il signor Dinuccio che, come Michele, si avvicinava spesso per raccogliere funghi: «Non sapevamo assolutamente nulla. Nessuno sapeva cosa trasportassero quei camion e cosa facessero in quella base. Non potevamo avvicinarci. La zona era sorvegliata dai soldati. Sapevamo che c’erano normali missili puntati contro l’Albania per difenderci da attacchi provenienti da lì. Solo dopo anni abbiamo saputo la verità».

Oggi abbiamo accesso alle informazioni, grazie alla caduta del segreto militare, ma allora circolava silenzio assoluto. «È strano tutto questo silenzio intorno a noi, c’è un gran movimento che trascorre quasi nell’indifferenza da parte dei civili. Anche la stampa locale non ne parla» racconta un anonimo soldato nel suo diario.

Il governo Fanfani acconsentì a patto che la notizia non fosse divulgata, come spiegò in un rapporto del ’61 il funzionario Usa Alan G. James: «Non ha nessun senso mantenere la segretezza sugli Jupiter e il loro posizionamento, ma sembra che il Governo Italiano preferisca così per ragioni politiche».

A sapere delle basi erano i sovietici, come dimostrò l’episodio del mig bulgaro, dotato di apparecchi fotografici, precipitato ad Acquaviva. Minacciarono persino di colpirle. Sarebbe stata una catastrofe inimmaginabile con milioni di morti.

Le prime informazioni arrivarono dalla stampa americana e furono riprese dall’Unità il 22 settembre ’58. Se ne parlò alla Camera dei Deputati il 30 settembre, quando il ministro della Difesa Antonio Segni fu interrogato sull’argomento.

Segni, giustificando le basi con i doveri verso la Nato e il potenziamento della difesa del Paese e dell’azione deterrente, riferì: «Il Parlamento, nella sua sensibilità, comprenderà il riserbo al quale sono costretto e che devo mantenere sui particolari concernenti il numero (del resto limitato) e la dislocazione degli impianti anzidetti».

Pian piano le notizie, però, iniziarono a trapelare, suscitando un’intensa mobilitazione che portò alla marcia contro i missili di Altamura, il 13 gennaio ’63.

IL CAMPO

Un rudere in precarie condizioni, esposto alle intemperie, con muri crollati o pericolanti, in preda alla vegetazione spontanea, circondato dalle sei torrette difensive in cemento armato. Le strade di accesso sono in pessimo stato. Il tempo cancella sempre più le testimonianze rimanenti. Si presenta così, innocua, l’area tra Altamura e Bitonto che volgarmente chiamiamo “campo dei missili”, in località Murgia del Ceraso. Se non fosse per le torrette nessuno capirebbe che quella era una base militare.

Già, perché quelle strutture anonime un tempo celavano un terribile segreto: tre testate termonucleari installate nei missili Jupiter, in grado di colpire Mosca. Con una gittata tra i 1000 e i 5500 km i razzi prodotti dalla Chrysler, basati sulla tecnologia sviluppata dai tedeschi durante la guerra mondiale, contenevano ordigni 75 volte più potenti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki. Una loro esplosione, anche per cause accidentali, avrebbe cancellato Puglia e Basilicata. Sostennero la pericolosità anche gli americani nelle relazioni inviate in patria. Accadde persino che un fulmine innescasse la procedura di lancio.

Il “campo dei missili” era una delle dieci basi costruite sulle Murge nel ‘60 per difenderci dai russi, la numero 6, localizzata nei documenti ad Altamura alta, ma in realtà al confine con Mariotto. La principale era a Gioia del Colle. Le altre erano a Mottola, Laterza, Altamura bassa, Gravina, Spinazzola, Acquaviva, Irsina, Matera.

La struttura era uguale per tutte. Un triangolo circondato da sei torrette difensive che controllavano l’area circostante. Oltre alle tre rampe di lancio, c’erano una centrale elettrica e la caserma.

Cosa fare per tutelare la memoria? Se l’è chiesto il Centro Studi Torre di Nebbia, che sull’argomento ha svolto numerosi lavori di ricerca. Partendo dalla proposta avanzata alla Camera dal deputato Giorgio Nebbia nell’85, riguardante la restituzione dei suoli ad uso civile, l’idea del Centro è di impedire la completa distruzione dei siti e istituire un “museo diffuso della memoria" che promuova pace, convivenza e sviluppo sostenibile.