"Mio nonno cacciò Riina da Bitonto". Intervista a Girolamo Lacquaniti, omonimo nipote del questore di Bari

"Quel foglio di via fu, per lui, un baluardo di civiltà".

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Nel 1969, da Bari, sarebbe potuto partire uno dei primi, duri colpi alla mafia. Il capoluogo, infatti, ospitò il processo a Salvatore Riina, Luciano Leggio e Bernardo Provenzano (già latitante) e altri membri di Cosa Nostra. Ma, quella che poteva essere un’occasione per fermare l’ascesa dei corleonesi, si trasformò nella sconfitta dello Stato. Tutti i 64 imputati vennero, infatti, assolti e le accuse di associazione a delinquere e di omicidio furono cancellate. Non fu riconosciuta la natura della mafia come associazione a delinquere. In una parola, quel processo fu un disastro.

Ad influenzare il giudizio dei giudici, come fu appurato in seguito, una lettera minatoria anonima, che minacciava la morte di chiunque avesse osato condannare quelli che erano definiti “galantuomini”. Minaccia estesa anche ai familiari. Erano anni in cui non esistevano, per gli uomini dello Stato, le forme di tutela che ci sono oggi.

Fu un processo che vide Bitonto protagonista, sia perchè Riina e Leggio vi alloggiarono per l’occasione, sia perché manifestarono anche la volontà di trasferirsi e di acquistare terreni agricoli. Obiettivo che sarebbe andato a buon fine, se l’allora questore di Bari Girolamo Lacquaniti non avesse consegnato ai due boss un foglio di via che li costrinse a lasciare la Puglia.

«Mio nonno era furibondo per l’esito del processo, perchè venne smontata tutta la tesi accusatoria fatta dagli organi di polizia» è il ricordo di un altro Girolamo Lacquaniti, poliziotto e nipote omonimo, che conserva la memoria dei racconti di famiglia relativi a quegli eventi, che si svolsero mentre stava per nascere: «La cosa più grave, per mio nonno, non fu la vile assoluzione dettata dalla paura, perché si sarebbe potuto comunque mascherarla con pseudo-vizi di forma. Invece, con quelle motivazioni, si distrusse il lavoro investigativo fatto fino ad allora e si regalò loro una grande vittoria. L’esito di quel processo condizionò molto la giurisprudenza sul tema mafioso negli anni successivi. I giornalisti Bolzoni e D’Avanzo hanno raccontato molto bene quel processo».

Una manifestazione di debolezza dello Stato che il questore Lacquaniti non poteva assolutamente accettare, anche perché, nato in Sicilia, nel 1906, conosceva bene su cosa si basava il potere di Riina e Leggio. Si basava proprio sulla forza, sulla capacità di incutere paura: «Si sentì investito dalla missione di ridare dignità e forza allo Stato. Non poteva accettare il fatto che quei criminali pensassero che lo Stato fosse debole. La sua reazione fu veemente».

Ecco perché tentò prima di arrestarli, poi, dopo un confronto con la magistratura siciliana, decise di emettere un foglio di via per costringerli ad andarsene, così da permettere il loro fermo nell’isola. Una caparbietà dovuta ad una consapevolezza. Il questore Lacquaniti conosceva bene la pericolosità di quella gente: «Per comprendere il motivo di quel foglio di via bisogna considerare il tessuto criminale barese di quegli anni. Era una città molto difficile, perché è vero che non c’erano insediamenti mafiosi organizzati come li immaginiamo oggi, ma era una città dove la criminalità era diffusa e fortemente pervasiva. Basti pensare al centro storico dell’epoca. Non poteva entrare una nostra macchina. Bisognava entrare con uno dispiegamento di forze notevole. Bari era una polveriera. C’era tanta criminalità, ma non organizzata. E lui voleva evitare la miscela pericolosissima tra la criminalità già radicata e le capacità organizzative, unite al disprezzo per qualsiasi regola, dei corleonesi. La criminalità barese non aveva quella sfacciataggine che i corleonesi avevano nei confronti dello Stato, così come dimostrò la minaccia fatta al presidente durante il processo. E lui, dunque, temeva che un gruppo criminale di quel livello, di quella capacità organizzativa, potesse stravolgere in peggio una realtà criminale che già non era facile».

Un timore sempre maggiore anche in vista dell’emergente traffico di droga: «Bari non era una città tranquilla, anzi era una terra fertile, che aveva grandi vantaggi. Il porto aveva un’importanza notevole. La capacità commerciale e le infrastrutture si prestavano bene agli interessi criminali. Era ancora una regione dove non esistevano dei capi capaci di avere associazioni criminali strutturate e organizzate. Lavorare in questo spazio vuoto poteva dare ai corleonesi ricchezze e vantaggi in tempi rapidi. Bari aveva tutto ciò che serviva a Riina per allargare il suo impero criminale. Tutto ciò avrebbe potuto innescare un salto di qualità nella mala barese».

Salto di qualità che, purtroppo, in ogni caso ci fu, ad opera, qualche anno dopo, della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.

L’acquisto di una residenza a Bitonto serviva proprio ad evitare, furbescamente, il foglio di via, misura che non poteva essere emessa in caso gli interessati fossero stati residenti qui in città. Ma non fecero in tempo: «Mio nonno raccontava spesso che, allo scadere dell’ultimatum del foglio di via, a mezzanotte e un minuto, aveva dato ordine ai suoi uomini di prendere Leggio e Riina, caricarli in macchina e portarli via da Bari. Si dice che Riina fosse furioso per l’ordine emesso da mio nonno, si racconta delle sue urla nella hall dell’albergo. Quel foglio di via era, per mio nonno, l’ultimo baluardo di civiltà giuridica e di rispetto delle persone oneste, come raccontò al prefetto, quando quest’ultimo si trovò a valutare il ricorso, che, fortunatamente, non fu accolto. Ci fu, in mio nonno, la piccola soddisfazione del far capire a Riina che non tutto lo stato era ricattabile con le minacce. Forse una vittoria di Pirro, ma quello che lo rincuorò mio nonno fu il fatto che poi, a Palermo, il boss trovò altra autorità giudiziaria ad aspettarlo».

Purtroppo, qualche tempo dopo, sia Leggio che Riina riuscirono a fuggire, dando inizio alla latitanza che, mentre per Leggio durò qualche anno, per Riina, si concluse a inizio anni ’90.

L’incapacità dello Stato di colpire, allora, la mafia, ebbe anche ripercussioni in quel decennio difficile che furono gli anni ’70, come spiega Lacquaniti: «Anche la lotta al terrorismo incise molto sul contrasto alla mafia. È come essere in una guerra impegnati su due fronti. Per noi è stato complicatissimo. Tante risorse furono destinate a contrastare il terrorismo, che fu, di fatto, una guerra civile, se contiamo le centinaia di morti. Sono stati anni in cui avere due priorità di queste dimensioni non fu facile. Anche perché furono anni in cui ci fu un ulteriore salto di qualità delle organizzazioni mafiose, che iniziarono ad intervenire in ambito finanziario. Pensiamo alla morte, nel ’79, di Boris Giuliano, un investigatore incredibile, ucciso dal cognato di Riina, Leoluca Bagarella, primo ad indagare sugli interessi mafiosi nella finanza, decenni prima che Pino Arlacchi li denunciasse nel volume “La mafia imprenditrice”».

E proprio i crimini fiscali sono quelli a cui bisogna prestare maggiore attenzione, soprattutto in questi momenti di difficoltà causati dalla pandemia. Negli anni ’70, lo Stato affrontava una crisi, un momento di difficoltà, di cui la mafia approfittò per rafforzarsi. Un rischio endemico in tutte le congiunture negative dell’economia, della politica, della società. E, sebbene si tratti di un periodo completamente diverso, anche quello che stiamo vivendo attualmente è un periodo di difficoltà di cui le mafie possono e vogliono approfittare: «Dobbiamo avere le idee chiare e le strategie chiare per affrontare un momento che può consentire alle organizzazioni criminali di arricchirsi ulteriormente. Grandi momenti di crisi rappresentano un’occasione estremamente ghiotta per chi ha grande disponibilità di denaro. Se diamo un’occhiata alla cronaca recentissima, le operazioni della direzione investigativa antimafia sono tutte indirizzate a colpire i patrimoni. Questo perché c’è la consapevolezza del rischio che venga inquinata l’economia sana e che vengano acquisite aziende in difficoltà. Se non operiamo con attenzione, c’è il rischio di dare ulteriore vantaggio, ulteriore forza a queste organizzazioni. La crisi, il rischio di usura, le difficoltà economiche danno a chi ha disponibilità economiche e liquidi immediate un potere importante, come è stato detto dal capo della polizia Gabrielli e, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, dal ministro degli Interni. Il periodo è delicato, perché abbiamo imprenditori in difficoltà e l’occupazione non può essere a pieno regime. Da sempre le organizzazioni criminali e, in particolare, mafiose, hanno dimostrato la loro forza e sono cresciute nei momenti di crisi. Ci dobbiamo occupare dei giovani, affinchè non siano preda di queste organizzazioni. Dobbiamo trovare formule che aiutino i nostri ragazzi a non cedere ad offerte che, da un mero punto di vista economico, sono allettanti. Facile dir loro che bisogna rifiutare. Bisogna, invece, offrire alternative».