Il reportage di Emilio Garofalo 2/ Guerra e la pace ai giorni nostri, a Tirana

Secondo appuntamento con i racconti dalla capitale d'Albania

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Se sei a Tirana, in quel nugolo di macchine, motori e carrette ambulanti, percorrendo le lunghe strade del centro, ti ritrovi, prima o poi, di fianco alla Cattedrale di san Paolo.

Lì, come un po' dappertutto nella Capitale dell'Albania, troneggia la foto di Nene Tereza, Madre Teresa di Calcutta.
Di Calcutta, certo, ma anche "albanese di sangue", come scriveva proprio la santa dei poveri e dei disadattati, parlando di sé.

Oltre la chiesa, ornata da una statua del santo e da un Crocifisso in ferro che, da un lato all'altro del luogo sacro, abbracciano un pezzo di cielo, c'è un ponte in legno, con dolci arcate che danno sul fiume Ishem.

Ancora più giù, si apre una piazza.
Ci arrivi camminando tra vecchie gipsy rumene, olivastre e rugose, che ti vendono merce dell'est, masticando il tabacco che fuoriesce dalle loro sigarette consumate.

Vista da lontano, la piazza sembra squarciata da una specie di cicatrice. 
È solo avvicinandoti, che il mistero si rivela per quello che è: si tratta di una campana, sorretta da due binari in ferro, lamiere parallele laminate di rosso.

È la Campana della pace, messa lì a eterna memoria dei delitti (ancora troppo poco noti) del comunismo.
Dietro quel semplice, ma così denso di significato, monumento, c'è una piramide: la Piramide della libertà.

Costruita in modo tale (spiegano i vecchi albanesi che trovano ristoro dalle loro affannate corse di vita quotidiana sulle panchine del centro) che vista dall'alto, magari in elicottero, sembri un'aquila. Con tanto di apertura alare nella massima estensione.

Le pareti sono ornate da murales realizzati dai giovani graffittari delle zone suburbane.
Lisce, ripide, ma percorribili. Quando me lo dicono alcuni studenti, stento a crederci.
Sorridendo, mi invitano a provare.

Accetto. Passo dopo passo, mi avventuro in quella che, all'inizio, sembra una follia: la scalata dei muri esterni della piramide della Libertà.
Una follia, sì, che tuttavia, alla fine, si rivela una assoluta meraviglia.

D'un tratto, infatti, Tirana ti esplode senza alcun pudore, come una donna sensuale e disinibita, davanti agli occhi.
Uno skyline umile e imponente.
Bandiere rosse sotto nuvole corvine. Le fedeli vette dei Balcani a incorniciare il volto zingaro della Capitale.

In cima, ci sono due ragazzini, non più di quindici anni. Ridono, scherzano, fumano. Si voltano, uno di loro mostra una dentatura rovinata che dona a quel volto una grazia innocente.

"Ciao", azzardo. "Ciao", rispondono.

Si mettono in posa, abbracciandosi. Una foto. E lì, da qualche parte, in quelle periferie distrutte che si aprono davanti a noi, ci deve essere la loro casa. Ci salutiamo.

Ciò che resta è una pensosa malinconia. Quella del desiderio di pace che avverti seduto sulla punta di una piramide costruita nel cuore di una città distrutta dalla guerra. Poi, il tramonto.

È ora di andare. I minivan rombano, ci porteranno verso nord, lontano da Tirana, dove i villaggi albanesi hanno nomi difficili da pronunciare, voragini nelle strade, tradizioni balcaniche secolari.

E tanta gente povera, che passa la vita a trovare motivazioni per essere felice...