Il reportage di Emilio Garofalo 6/Kosovo: dai villaggi a Pristina, capitale dove tutto può succedere

Continua il viaggio nei Balcani per il nostro Emilio. Dopo il Kosovo, visita nell'Albania orientale e meridionale

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Il reportage di Emilio Garofalo 6/Kosovo: dai villaggi a Pristina, capitale dove tutto può succedere La Bill Clinton Boulevard a Pristina

Si potrebbe parlare delle bellezze paesaggistiche, dei villaggi silenziosi di montagna, del silenzio di certe case, rotto solo dalla voce dei bambini che, scalzi, con indosso giacche jeans di taglia più grande, corrono liberi al tramonto.

Si potrebbe parlare dei volti dei kosovari e delle loro rughe profonde, degli sguardi spenti e del vino forte, delle taverne semplici e piene di fumo. Della carne, del formaggio fresco o del baklava, dolcissimo dolce al miele che, un po' dappertutto nei Balcani, ristora chi cammina lungo quei territori, seguendo l'istinto, la voce degli altri viaggiatori, le scie che il sole traccia nel cielo.

Oppure, si potrebbe descrivere il fascino e il mistero delle moschee. In Kosovo, ce ne sono dappertutto: sui fiumi, nelle valli, in centro città, a ridosso delle chiese cattoliche o ortodosse, vicino alle scuole, ai supermercati e ai fast food.

Si potrebbe parlare dell'isolamento di uno stato non ancora riconosciuto all'unanimità dalla comunità internazionale, in cui si muovono tutt'oggi alcune pedine della scacchiera di una guerra fredda mai finita.

O di quanti, in Albania, quando sentono che stai partendo per il Kosovo, ti ricordano di portarti dietro il passaporto, nonostante "Il Kosovo è parte dell'Albania. Prova a chiedere anche lì, ai kosovari, e vedrai che ti risponderanno che sono albanesi".

Noi, ai kosovari, lo abbiamo chiesto. E molti di loro non si sentono affatto albanesi. Nonostante le proteste per le ingerenze statunitensi – a Pristina c'è Bill Clinton boulevard, una strada che termina con casermoni popolari e una statua dell'ex presidente degli Stati Uniti – e le difficoltà di vivere in una nazione grande quanto un distretto o una regione, in alcune zone controllata da eserciti stranieri (a Peja, su un ponte, abbiamo intravisto pattuglie di carabinieri italiani in servizio).

I kosovari rivendicano piuttosto una identità con spirito talvolta deciso talvolta rassegnato, come se la loro sorte fosse sempre collegata agli umori di un destino incontrollabile. Si potrebbe riassumere con queste immagini lo spirito della loro terra.

E invece, forse, ancora una volta, la cosa migliore da fare è raccontare la storia delle persone comuni. Quelle che ti fermano per strada e ti invitano a scattare fotografie con dolce familiarità. Le persone che, specie nei quartieri popolari, seguono i tuoi movimenti restando seduti sui loro sgabelli rotti. Fanno paura, ma poi sorridono.

La storia dei ragazzi che ti offrono grappa di mele alle undici del mattino e ti parlano delle antiche case kosovare, teatro di una quotidianità domestica morbida e avvolgente, che rivive nei loro sorrisi.

Forse, la cosa migliore da fare, è raccontare del mulino sul fiume di Prizren, con le gocce che, al sole, se, brano diamanti pendenti, delle carni sanguine appese in vetrina. Dei bambini che, all'uscita della scuola, al mattino, fanno colazioni improbabili con torte rustiche alla carne, o agli spinaci, o al formaggio, o ai legumi.

O delle prostitute che, a Pristina, cercando di sedurti con parole ammalianti e corpi perfetti, provano a intrappolarti nella rete dell'estorsione del mercato del sesso. O degli imam che ti guardano e, senza un motivo apparente, che tuttora non riusciamo a capire, ti cacciano in malo modo dalla loro moschea.

Ma un motivo ce l'avranno avuto senz'altro, ecco perché non hai protestato. Ecco perché, nonostante tutto, sei uscito dalla Moschea e hai ripreso il viaggio, sapendo che, presto, sarai da qualche altra parte, ma sempre col Kosovo ben impresso nella mente e nelle nostalgie più dolci.

E noi tutto questo lo sappiamo. Presto, infatti, saremo altrove. A est, dove l'Albania si fa rustica e orientale, e si tinge delle tinte rosse di un comunismo da tutti maledetto, ma sempre, in un certo senso, "duro a morire".

E poi a sud, nella terra del silenzio, dove il mare in inverno è il volto della pace, calmo e freddo. Dove le terre sono piene di alberi di ulivo e il vino è ricco di sapori fruttati. Dove Corfù è a un'ora di navigazione.

Dove il paesaggio cambia e le persone hanno culture diverse, ideali e valori via via differenti. Dove la diversità dei popoli muore solo nella loro comune appartenenza ai Balcani.