Mariotto, "Ameluk". Storie di attori 1/Roberto Nobile, dal teatro al cinema sempre con passione

"Non solo come attore, ma come artista e intellettuale, io appartengo a una generazione che ormai sta sparendo"

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Il miracolo più imperscrutabile del mondo si realizza su un palcoscenico o dinanzi a una macchina da presa.
Nel momento magico in cui si può diventare “altro”,  pur continuando a vivere una vita propria.

Roberto Nobile e Mehdi Mahdlooappartengono a due generazioni di attori che si sono fondate su valori umani e culturali diversi. Tuttavia, ad accomunarli è il medesimo amore per il cinema. Così, per circostanze casuali, nelle ultime quattro settimane si sono ritrovati a condividere le gioie e le tensione del film Ameluk, che il regista Mimmo Mancini ha girato a Mariotto.

Noi del Dabitonto abbiamo colto l’occasione di farci svelare i segreti reconditi della loro vita professionale. Un’intervista doppia per raccontare ai lettori tutto il fascino di una professione che cambia negli anni, pur restando nella sua essenza immune dallo scorrere del tempo.

Roberto, come avviene l’incontro con il cinema? Dalla tua biografia emerge che nasci principalmente come attore di teatro…

Sì, la maggior parte degli attori della mia generazione nasce col teatro. Ho cominciato con un teatro un po’ autoreferenziale, nel senso che ero io stesso autore di alcuni monologhi che poi mettevo in scena. Ho cominciato cioè, come molti miei coetanei, con un teatro sperimentale e con la critica alle compagnie tradizionali. Ma a un certo punto, questa ondata di teatro sperimentale e di strada ha perso colpi perché non riceveva più la giusta attenzione da parte della critica né delle istituzioni. Così sono entrato in crisi. I teatri ufficiali, infatti, avevano difficoltà a prendere me e altri attori come me, dal momento che non eravamo conformati ai loro schemi. Allora, mi è venuto in mente di cercare di fare qualcosa nel cinema, perché credevo che in quel mondo si cooptassero attori più “terra terra”, più ruspanti di quanto non facesse il teatro. Da qui è nato un po’ il desiderio e un po’ l’esigenza di entrare in un mercato di lavoro dove vi fossero più possibilità.

Raccontaci un aneddoto della tua carriera che ti piace ricordare.

Una volta ho girato, con un regista americano, un film in inglese il cui tema era la Sicilia e la mafia. L’abbiamo girato in inglese perché veniva distribuito nel mercato internazionale, ma poi abbiamo dovuto doppiarlo per il mercato italiano. Io, quindi, dovevo doppiare le mie battute. Premetto, però, che di tutti gli attori che giravano questo film io ero l’unico siciliano e, quindi, originario del luogo di cui nel film si parlava. Ma al doppiaggio mi sono ritrovato dinanzi a uno che faceva il coach, cioè che voleva insegnarmi a doppiare in siciliano. Io, però, ero molto restio ad accogliere i suoi insegnamenti e così alla fine hanno trovato un altro attore che ha doppiato in siciliano le mie battute perché il mio siciliano non andava bene. Questo per dire quanto a volte ci siano stilemi o modalità di recitazione che impediscono all’attore di imitare la realtà. Spesso ci si imbatte in cliché a cui bisogna conformarsi.

C’è un film che ti ha rapito il cuore e che non ti stancheresti mai di guardare?

Difficilmente vedo un film più di una volta. Tuttavia, amo molto lo Sceicco bianco di Fellini. È un film che mi commuove sempre. E ultimamente, ho molto amato un film scandinavo che si intitola Le mele di Adamo. È meraviglioso, un film girato con pochi soldi e che consiglio a tutti perché fa sì che lo spettatore si interroghi sull’esistenza di Dio, sul destino umano, sul perché accadano certe cose.

Cosa significa essere attori nella nostra società? Quali sono i sogni, le speranze, le difficoltà?

Non solo come attore, ma come artista e intellettuale, io appartengo a una generazione che ormai sta sparendo. Vale a dire, quella generazione che ha vissuto la propria infanzia e la propria adolescenza senza la televisione e, quindi, con punti di riferimento sia culturali che umani completamente diversi. Io la sera non stavo in casa a guardare la televisione, uscivo di casa a giocare con gli amici. E, nello stesso tempo, avevo come modelli culturali i romanzi dell’Ottocento e del Novecento, non il cinema né soprattutto la televisione. Credo che questo cambi moltissimo le persone e il modo di approcciarsi alla realtà. E di conseguenza influenza la nostra professione.

Il più grande insegnamento di vita che devi al cinema.

Ho avuto un insegnamento strano da Ricky Memphis, l’attore che ha fatto con me Distretto di Polizia. Devo riconoscere che a me, in passato, dava molto fastidio la mia popolarità. Forse perché l’ho avuta a tarda età e quindi non ne ero abituato. Una giorno ero a pranzo con Richy ed eravamo costantemente interrotti dalle persone. Questo, però, era un fenomeno che capitava più a lui, che era un attore più conosciuto e più amato di me. Così gli chiesi: “Ma come ce la fai? Come resisti?”. E lui mi rispose: “Queste sono le persone che mi danno da mangiare”. È stato un grande insegnamento per me e da allora ho davvero cambiato atteggiamento nei confronti di chi vuole un’attenzione o una foto. Immediatamente scatta il meccanismo della cordialità.

Sul personaggio che interpreti nel film Ameluk di Mancini, vuoi fare un commento?

Be’, è un personaggio contraddittorio perché da una parte è il vecchio prete di provincia, ma dall’altra ha un’attenzione per i cambiamenti e la diversità.  Questo per me è il miracolo della vita, di cui probabilmente vuole parlare il film. Tante volte, infatti, accade che in un posto piccolo in cui c’è un forte controllo sociale, nasca un fiore che spicca particolarmente per la sensibilità.