Mariotto, "Ameluk". Storie di attori 2/Mehdi Mahdloo, fra la tragedia dell'Aquila e Checco Zalone
"In questo lavoro spesso si è a contatto con chi ha tanto da insegnare e io ho imparato che se non si hanno occhi per guardare e orecchi per sentire si rimane indietro. Essere umile aiuta a progredire"
Medhi, come avviene il tuo incontro con il cinema?
Il mio incontro con il cinema nasce subito dopo la tragedia del terremoto aquilano. Io studiavo all’Aquila e quella notte ero lì. Poi, dal momento che faccio anche parte della Croce Rossa, subito dopo sono rimasto ad aiutare in un campo che avevamo allestito. Passò, così, la troupe di Giuseppe Tandoi, che girava il film La città invisibile. Il regista venne a sapere che io ero già attore di teatro e volle incontrarmi per un ruolo che poi si è concretizzato con la mia partecipazione al film. Tuttavia, fino a quel momento, il cinema l’avevo un po’ snobbato perché è il teatro la mia passione più grande. Non so spiegarvi, in realtà, il meccanismo che scatta in un attore di teatro quando sente parlare di cinema per la prima volta. Forse lo considera un mondo molto artefatto, perché non c’è il contatto diretto con il pubblico. Poi mi sono ricreduto.
Raccontaci un aneddoto della tua carriera che ti piace ricordare.
Durante le riprese del film Che bella giornata con Checco Zalone, mi chiamarono per registrare la famosa scena della telefonata, che poi è diventata la più nota del film. Io arrivai sul set, feci la mia scena e Gennaro Nunziante diede stop e considerò buona la prima. In quel momento ebbi l’impressione di aver fatto molto schifo, mi sentì quasi escluso e considerato con sufficienza. Così mi rifugiai tutto imbronciato nella mia stanza. Ma qualche minuto dopo, Zalone bussò alla mia porta e si complimentò con me, dicendomi che Nunziante aveva sempre fatto ripetere una scena che non lo convincesse a pieno. Cosa che poi è accaduta in seguito anche con me. Ricordo, infatti, che in una scena siamo andati oltre il ventesimo ciak. Quindi, sono contento di aver fatto una buona impressione anche a Gennaro.
Che tipo è Gennaro?
Sa quello che vuole. Ed essendo anche autore, è un regista che ha tutto il film in mente e sa come arrivare a realizzare la sua idea. In più, non scende mai a compromessi e si fa rispettare. Ricordo che sul set ero terrorizzato quando si alzava dalla sedia. Tuttavia a lui devo tanto. Mi ha insegnato ad essere molto sveglio, a non isolarmi e a interagire con il regista e con le altre figure di un film.
C’è un film che ti ha rapito il cuore e che non ti stancheresti mai di guardare?
Sono due, in realtà. Uno èInto the wild, scritto e diretto da Sean Penn, un film che ho ammirato tanto su Christopher McCandless, di cui avevo già letto la biografia. L’altro è This is Englanddi Shane Meadows. Rappresenta un piccolo spaccato di quello che ho vissuto anch’io le prime volte in cui mi sono recato in Inghilterra, un posto con cui sono costantemente in contatto e che amo molto. Sono due film che consiglio caldamente a chi non li ha visti.
Cosa significa essere attori nella nostra società? Quali sono i sogni, le speranze, le difficoltà che incontri?
Da quel che mi dicono, fare l’attore oggi è molto più complicato. In passato, diventarlo era più semplice perché o eri bravo o non lo eri. Oggi, invece, sanno quasi tutti mettersi dinanzi a una telecamera con più o meno tecnica. In generale, è un mestiere fatto di tante paure e insicurezze. Prima di tutto, quella di non sapere se continuerai a svolgere questa professione, dal momento che ciò dipende soprattutto da tanti fattori esterni. Il mio sogno più grande, invece, è quello di fare sempre meglio, di progredire e andare avanti. E questo non vuol dire necessariamente avere un ruolo primario o una paga maggiore, ma migliorarsi e fare esperienza.
Il più grande insegnamento di vita che devi al cinema.
Essere umile. In questo lavoro spesso si è a contatto con chi ha tanto da insegnare e io ho imparato che se non si hanno occhi per guardare e orecchi per sentire si rimane indietro. Essere umile aiuta a progredire.