"Un fante in Russia". Storia di un bitontino sopravvissuto alla disfatta dell'esercito italiano

Il reduce della seconda guerra mondiale Giuseppe Sorgente racconta la sua esperienza, in un libro presentato martedì in città

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Andare in guerra non piace a nessuno. E’ stato un dovere che ho pagato a caro prezzo. Ma il dovere è considerato tale quando è seguito da un diritto, altrimenti è sfruttamento al pari delle bestie”.
Commenta così, in una delle pagine del proprio libro, l’esperienza in guerra, il bitontino Giuseppe Sorgente, autore de “Un fante in Russia”, pubblicato ad agosto ed edito da Ugo Mursia Editore. Il libro è stato presentato a Bitonto alla presenza del professor Nicola Pice, del professor Stefano Milillo e del giornalista Marino Pagano.
Nell’opera l’autore ricorda la propria esperienza al fronte e il suo ritorno, tra mille difficoltà dalla Russia alla natìa Bitonto, cercando di sfuggire ai mille pericoli lungo il cammino. Sorgente, appena ventenne, fu spedito, con la divisione di Fanteria "Vicenza", per il fronte russo, dove rimarrà fino alla primavera del '43 e parteciperà a tutte le azioni più drammatiche di questa campagna, da Stalingrado a Nikolajewka. Una campagna che si rivelerà disastrosa per l’esercito italiano, sconfitto e costretto alla ritirata dall’esercito sovietico.
L’autore, ripercorrendo i solchi profondi lasciati dalla ritirata dell’Armir (il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, ndr) e facendo affidamento unicamente alla propria memoria, ha deciso di raccontare la sua storia per preservarne la memoria e trasmetterla alle future generazioni. Alcune copie del volume, infatti, saranno donate alle scuole” rivela Pice, evidenziando che, anche a Bitonto, conservato negli archivi, esiste un elenco dei soldati caduti e dei dispersi.
E’ un racconto di una guerra, narrata non dai grandi protagonisti, ma da un uomo, uno di quei semplici uomini, apparentemente ininfluenti nel decidere le sorti del conflitto, ma che in realtà hanno vissuto sulla propria pelle quegli eventi” è il commento di Marino Pagano che, inquadrando storicamente quegli eventi, spiega: “La campagna dell’Armir fu una tragedia, per gli storici fu la follia delle follie, frutto dell’adeguarsi alle volontà dei tedeschi. Una tragedia annunciata, dato che erano note le condizioni dell’esercito italiano. Si consumò il suicidio italiano. Migliaia furono i morti, uccisi dal nemico o congelati. Tanti morirono durante la ritirata o durante la prigionia. Forse anche i russi erano impreparati a gestire un così ingente numero di prigionieri”.
Oggi i mezzi di comunicazioni ci informano in tempo reale dei conflitti. Ma vivere una guerra è diverso” continua Milillo, concordando sulla diffusione nelle scuole: “La morte gli era costantemente vicino. In quei momenti l’autore narra di come le idee, la religione, venissero meno, superate dalla lotta per la sopravvivenza. In quei momenti gli amici possono trasformarsi nei peggiori nemici. Nell’opera l’autore racconta l’odio dei soldati verso gli ufficiali, che pensarono solo a salvarsi, lasciando i soldati al proprio destino,le difficoltà nell’attraversare l’Italia, invasa dai tedeschi”.
E, riportando il pensiero dell’autore, aggiunge: “Dovrebbero riconoscere la memoria non solo dei caduti della Resistenza, ma anche di tutti quei soldati, come Giuseppe, che non hanno combattuto con la Resistenza, ma sono morti per qualcosa in cui credevano, per la patria. Sicuramente erano stati abbindolati dalla propaganda, ma non avevano scelta”.
Intervenuto, per conto dell’autore, che per motivi personali non ha potuto lasciare Roma, dove vive da anni, suo nipote Michele, che ha portato i saluti dell’autore.
L’incontro si conclude con la lettura, da parte dell’attore Raffaele Romita, di alcuni passi dell’opera, che raccontano tutte le difficoltà sul fronte, come i bunker “meno ospitali di ovili”, infestati da pidocchi e topi che mangiavano il poco pane a disposizione, gli ufficiali che vendevano i viveri destinati a loro, la scarsità di acqua per bere e lavarsi e di legna per scaldarsi e sciogliere la neve e, infine, i sentimenti durante la battaglia. Solo chi era dotato di forza d’animo e lucidità aveva possibilità di sopravvivere. Non contava il grado militare. Tra soldati e militari non c’era nessuna differenza, perché, in quei momenti “eravamo solo uomini”, sottolinea Sorgente.