La Politica, ieri e oggi/Dai partiti pigliatutto ai partiti cartello. La democrazia sempre più in crisi

Ci allontaniamo ancora una volta dall'ambito locale, per descrivere le trasformazioni subite dei partiti politiici

Stampa l'articolo

Che il vecchio partito di massa stesse cambiando se ne era accorto già il politologo tedesco Otto Kirchheimer, che, analizzando le vicende politiche in Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, aveva preannunciato, già nel ’66, la comparsa del “catch all party”, o, per dirla in italiano, il “partito pigliatutto”. Si trattava, ricordiamo, di una trasformazione che aveva generato la tendenza all’allontanamento dalle origini classiste dei partiti di massa e l’allentamento dei legami con i gruppi sociali originari di riferimento, per allargare l’influenza anche verso altri ceti sociali. Lo studioso tedesco, aveva notato, inoltre, che i partiti stavano abbandonando sempre più i tentativi di formazione intellettuale e morale delle masse, spostandosi sempre più verso l’obiettivo della ribalta elettorale, rinunciando ad agire in profondità e preferendo un più vasto consenso ed un immediato successo, per perseguire l’obiettivo della mera vittoria elettorale. La preoccupazione maggiore diventava assicurare l’accesso a diversi gruppi di interesse e l’ideologia, da fonte centrale di obiettivi politici, diventava nulla più che una forza motivazionale utile, ma non necessaria nella scelta elettorale. Contemporaneamente, il potere dei vertici di partito aumentava, mentre diminuiva il ruolo del singolo iscritto, la cui fedeltà si attenuava. Questa conversione generava anche una competizione tra partiti concorrenti, disposti ad adattarsi al modello dell’avversario, nella speranza di trarne benefici o nel timore di sconfitte elettorali. Diventava quasi una competizione tra commercianti, che vendono un prodotto simile.

A questa evoluzione dei partiti politici, sono seguite, negli anni altre. Già nel 1982 Angelo Panebianco notò, nel suo libro “Modelli di partito”, che i partiti erano diventati prettamente elettorali-professionali. Avevano, cioè, ulteriormente accentuato l'aspetto della professionalizzazione dei loro membri e ridotto il ruolo dei militanti. Dipendevano sempre più dal solo momento elettorale e dall’obiettivo del successo elettorale, avendo abbandonando ancora di più i tentativi di formazione intellettuale e morale che erano stati obiettivo dei partiti di massa.

Nel 1995, invece, il tedesco Richard S. Katz e l’irlandese Peter Mair individuarono ancora un’altra evoluzione. Nel loro saggio dal titolo “Changing Models of Party Organization and Party Democracy: the emergence of the cartel party” sottolinearono che l’indebolimento dei legami organizzativi con la società è compensato da un inserimento progressivo dei grandi partiti nello Stato, da una compenetrazione nelle strutture statali. Dallo Stato estraggono le risorse per la loro sopravvivenza. I partiti diventano sempre più centrati sullo Stato. Prevalgono le fonti di finanziamento pubbliche a scapito del finanziamento associativo.

Secondo i due politologi, i grandi partiti tendono a formare, cioè, sempre più dei “cartelli”, sottoscrivendo dei “patti” per tentare di minimizzare i rischi di sconfitta elettorale e dunque di esclusione dall’area di governo. Si sono trasformati, cioè, in quelli che i due chiamarono “cartel parties”, “partiti cartello”. Una sorta di accordo interpartitico, una collusione, finalizzata alla reciproca sopravvivenza, che, però, ha come effetto la riduzione della competizione politica. I partiti mantengono la loro forza, pur avendo ormai perso la loro legittimità (Piero Ignazi ne parlò in “Forza senza legittimità”).

Un modello che tende anche all’esclusione di ulteriori competitori e una compenetrazione con lo Stato. Il cartel party sviluppa ulteriormente campagne comunicative professionali e centralizzate, contraddistinte dall’uso di pubblicisti di professione ed esperti dei nuovi mass media e dall’uso intensivo di capitale, le cui risorse derivano in misura crescente da sovvenzioni e benefici statali. Nel frattempo, il partito come strumento di identificazione e socializzazione decresce a favore del partito come mera aggregazione di interessi, distribuzione

Nell’analisi di Katz e Mair, inoltre, questa ulteriore evoluzione dei partiti fa sì che la società civile rivolga le sue richieste direttamente allo Stato senza più passare per l'intermediazione dei partiti, poiché essi stessi sono diventati una sorta di agenzia semi-statale.

Aumentano le funzioni burocratico-amministrative, mentre diminuisce la capacità di rappresentanza, come sottolineò anche Leonardo Paggi, nel saggio “La strategia liberale della seconda repubblica”. Il ruolo degli iscritti si riduce ulteriormente ad una sorta di capi-ultras che incitano il pubblico al sostegno della propria squadra e che possono essere utilizzati per evitare che leader locali interferiscano negli affari nazionali. Una base atomizzata che ben poco può fare per influenzare la rafforzata.

Katz e Mair evidenziarono, poi, che tra livello locale e livello nazionale si stava sempre più denotando una organizzazione in cui ciascuna delle parti ha interesse a lasciar libertà d’azione all’altra. Un nuovo modello politico che si caratterizza per assenza di democrazia. O meglio, la democrazia si riduce al tentativo delle èlite di accattivarsi il consenso del pubblico, piuttosto che nel suo coinvolgimento nelle decisioni (ne parla anche Colin Crouch in “Postdemocrazia”). Gli elettori devono preoccuparsi dei risultati e non delle politiche, prerogativa dei professionisti. Nel modello individuato dai due, è sempre più difficile distinguere i partiti al governo da quelli in minoranza, dal momento che anche questi ultimi hanno la possibilità di occupare uffici. Tutto ciò, unito alla sempre maggiore somiglianza dei programmi di governo, ostacola i cittadini nella possibilità di sanzionare i partiti per le loro scelte.

L’ossessione della maggioranza spinge i cartel party a recepire le opinioni della parte maggioritaria della società e a ripeterle, rinunciando all’antico onere dell’interpretazione, dell’educazione delle masse. Diventano dei semplici megafoni delle masse. Tutto ciò fa di questi modelli politici, i più antipolitici che siano mai esistiti.

Una trasformazione che, però, non riguarda solo i protagonisti dell’arena politica, ma tutti. I partiti diventano, per l’opinione pubblica, dei collettori di privilegi pubblici e la democrazia cessa di fornire ai cittadini la possibilità di controllare i governanti, per ridursi ad un servizio che lo Stato deve fornire alla società civile. Abbandonata la tradizionale funzione educativa dei partiti di massa, infatti, venute meno le identità politiche e la partecipazione politica e sindacale delle masse, per l’opinione pubblica lo Stato diventa, infatti, già dagli anni ’80 un mero provider di servizi, un dispensatore di protezione, un’entità altra, staccata dalla società, che deve ascoltare le istanze del popolo, proteggerlo quasi come se fosse una madre (una deriva “materna” dello Stato che il francese Michel Schneider descrive in “Big Mother, psychopathologie de la France politique”).

Quando ciò non avviene per qualsiasi motivo, quando qualcosa va storto e qualche istanza non viene soddisfatta, che dipenda o meno da responsabilità di qualcuno, lo Stato diventa colpevole di non ascoltare i cittadini. Un meccanismo che diventa molto più evidente nelle città, nelle competizioni elettorali dei comuni, con la retorica della politica chiusa nelle stanze del potere, dei sindaci di strada e della politica sorda alle istanze dei cittadini.