La Politica, ieri e oggi/Il Psdi a Bitonto e la rivalità nella famiglia socialista

Vincenzo Fiore: "Andavamo d'amore e d'accordo con i comunisti, nonostante ci chiamassero, a livello nazionale, socialfascisti e socialtraditori"

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Il Partito Socialista non era l’unico partito socialista nel panorama politico italiano e bitontino. Con la scissione di Palazzo Barberini, nel 1947, infatti, nacque il Partito Socialista Democratico Italiano, in breve Psdi. Fu il frutto della scissione tra le due correnti del Partito Socialista, che fin dagli inizi del ‘900, cominciarono a delinearsi, una più estremista, rivoluzionaria e massimalista, e un'altra più moderata, parlamentarista e riformista.

Correnti che già negli anni della lotta antifascista avevano dato vita a partiti diversi, quando Filippo Turati, nel 1926, insieme a Paolo Treves, Giuseppe Saragat e Carlo Rosselli, nel 1927, fondarono in clandestinità il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli), diventato l’anno successivo Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani (Psuli). Ma nel 1930 il Psuli, in occasione del XX Congresso del PSI, tenutosi in esilio a Parigi, si riunificò alla vecchia casa socialista.

Nel ’47, nello storico Palazzo Barberini le due correnti si scissero nuovamente, dopo che negli anni precedenti erano tornate a scontrarsi. Scontro fra la maggioranza guidata da Pietro Nenni e la minoranza di Giuseppe Saragat, che sosteneva una linea politica più autonoma del PSIUP rispetto al PCI. Nacque il Psli che, dopo una serie di mutamenti, divenne il Psdi.

A Bitonto la sede del partito era accanto all’ufficio dell’anagrafe, da dove oggi si accede al Torrione Angioino. Storico esponente, nonchè consigliere, è stato Vincenzo Fiore: «Mi sono iscritto nel Psdi nel 1971, grazie alla testardaggine di Emanuele Coletto, al quale fu poi intitolata la sede bitontina. Coletto rappresentava l’ala riformista a Bitonto, al momento della scissione. Attorno a cui c’era un nucleo storico formato da Mario Sicolo, che è stato consigliere comunale, l’insegnante Gaetano Saracino, il professor Michele Sivo, le signore Lorusso, di cui una è la moglie di Saracino, Domenico Saracino, omonimo dell’ex sindaco Dc. Nell’85 eleggemmo 5 consiglieri comunali».

«All’epoca ci chiamavamo compagni» ricorda Fiore sottolineando che i rapporti tra i due partiti socialisti erano parecchio conflittuali: «Questa conflittualità, venuta fuori in modo forte tra me e Gaetano Scamarcio, fece nascere due grosse realtà: l’attuale caserma dei carabinieri e il tribunale. Ma tra noi non c’è mai stata una bella aria. Tant’è che quando i socialisti presero 14 consiglieri comunali e noi 5, ci fecero fuori, perché non digerivano la nostra presenza. Nacque così la giunta DC-PSI guidata da Labianca (’85)».

«Perché il PSDI? Avevo già letto Turati e Treves, di cui condividevo molte cose, e quindi mi ero già fatto una cultura politica socialdemocratica progressista. Avevo già conosciuto, inoltre, Emanuele Coletto e Mario Sicolo. In quel periodo ebbi la possibilità, grazie a Franco Bonasia, di conoscere Michele Di Giesi (più volte deputato e ministro, indicato come possibile segretario nazionale, prima che un infarto lo stroncasse nell’83, ndr), che un giorno venne a Mariotto all’inaugurazione di una gara che Franco Bonasia aveva organizzato. Ricordo che scendendo dal palco, mi prese da parte e mi chiese di impegnarmi attivamente. Io accettai e di lì partii il mio impegno nel partito. Di Giesi in un ipotetico governo di sinistra, guidato da Berlinguer, fu anche indicato come unico socialdemocratico a far parte del governo come vicepresidente del consiglio. Non partecipai all’incontro, ma ero in macchina. Lo accompagnai in un posto dove c’era anche Berlinguer. Era il 1980».

Una vita non certo facile ma bella all’interno del Psdi: «Venivamo continuamente attaccati dal Partito Comunista, che in un periodo ci chiamava socialfascisti, socialtraditori, perché ritenevano che fossimo traditori della sinistra. Invece a distanza di anni abbiamo avuto ragione. Ma sul piano amministrativo, a livello strettamente locale, siamo sempre andati d’amore e d’accordo con i comunisti, diversamente da quanto accadeva con il Psi. Anche perché la linea che ci veniva dettata da Bari era di fare giunte di sinistra. Ed è anche stata sempre la mia linea. Anche i rapporti con la Dc erano conflittuali. Molte volte mi sono scontrato con Carmine Barbone. Rapporti più tranquilli ci sono stati, poi, con la dirigenza di Nicola Pice».

«La vita di partito era bella» continua, evidenziando come nelle assemblee ci si incontrasse, ci si confrontasse, ci si scontrasse: «Non c’erano i problemi nati con la fine dei partiti. Non c’era un movimento giovanile. Eravamo tutti insieme. Ci si vedeva ogni sera, si parlava, ci si scontrava, ma alla fine si era amici. La differenza tra ieri e oggi è che anche in consiglio avevi lo scontro anche duro, ma finiva lì e andavi a mangiare insieme. Oggi no».

C’era anche un giornale, “Area socialista”, frutto dell’esperienza di Fiore già negli anni in cui era in Azione Cattolica, in cui aveva già scritto in un giornale dal nome “Noi giovani”. Direttore responsabile era Valentino Garofalo: «Poi ci fu “La voce delle frazioni”, con direttore responsabile Antonio Amendolagine».

Ma il seguito del Psdi era notevolmente inferiore a quelli del Psi. Sia in termini di voti, che di militanti. Lo ricorda anche il socialdemocratico, ricordando un aneddoto: «Mi raccontava Pasquale Marinelli, membro storico del PCI, che una sera stava cercando Emanuele Coletto. Sapeva che stava al partito e lo andò a trovare. Si stava tenendo un’assemblea come annunciava il manifesto con la scritta “Grande Assemblea socialdemocratica stasera a Bitonto”. Ebbe un po’ di esitazione prima di entrare, anche perché, abituato alle folle oceaniche dei congressi del Pci, si aspettava altrettanto. Entrando vide solo Coletto, con un altro esponente, Vincenzo Chiapperini, e Michele Sivo. Non stavano altre persone. Però questo dà l’idea della forza di volontà che si aveva all’epoca. A malapena arrivavamo a 250 voti, diventati 500, quando fu eletto consigliere Mario Sicolo. Il boom lo si ebbe quando eleggemmo cinque consiglieri comunali con 3500 voti. Correvamo per avere il sindaco. Per sei voti non avemmo il sesto consigliere comunale».

Come in tutti i partiti politici, si faceva la gavetta, come conferma anche l’ex assessore: «Ho ritardato a laurearmi anche perché andavo al partito, alla segreteria particolare di Di Giesi. I comizi ho imparato a farli nella federazione del partito, all’epoca in via Dante 111, dove un tale Vito Faria, che aveva a malapena la terza elementare, mi insegnò come parlare al microfono. Nelle campagne elettorali, specialmente quelle per le amministrative, si andava alla ricerca di una lista adeguata e ci si muovevi non pensando nemmeno alle eventuali alleanze, ma solo per prendere un voto in più. Io avvertivo che bisognava andare oltre lo steccato del partito, altrimenti si rimaneva bloccati ai soliti voti».

Con l’avvento di Craxi, tra gli anni ’70 e gli ’80, l’intervistato ricorda anche alcuni tra i meccanismi negativi che iniziarono a instaurarsi nella politica italiana. Sia dal punto di vista del Psdi che secondo Fiore, si trovò con una dirigenza non più in grado di avere una voce autonoma, sia da quello delle modalità di condurre l’attività politica: «Prima la gestione era più centralizzata. Poi quando hanno visto che Craxi faceva grandissimi congressi a Milano, in Sicilia, i vari segretari locali hanno iniziato a fare altrettanto, innalzando i costi delle campagne elettorali. E siccome fare attività politica necessita di risorse, questo contribuì al diffondersi dei mali che hanno poi portato al crollo dei partiti. Il PCI non era immune, ma aveva un rigore più scientifico, rispetto ai socialisti, che non hanno avuto poi la forza di stare insieme e legarsi, dando inizio alla diaspora. Il Psdi sopravvisse alla caduta dei partiti per qualche anno, poi i debiti accumulati portarono allo scioglimento. Ma ancor prima, a far cadere i partiti fu la caduta del rapporto ideologico con la gente. Le indagini alla fine possiamo dire che le indagini della magistratura non c’entrino nulla. I cittadini ad un certo punto hanno detto che delle ideologie non sapevano che farsene. E qui è subentrato il ruolo della rete costruita da Grillo. È stato abile nell’intercettare la rabbia».