La Politica, ieri e oggi/Le proteste dell'"Autunno caldo" del '69 nella zona industriale di Bari

Il prof. Sabino Lafasciano: «Si andava a vendere il giornale e a fare volantinaggio davanti alla Magneti Marelli, alla Fiat Om»

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Nel precedente appuntamento di questa rubrica abbiamo parlato delle proteste del movimento studentesco. Proteste messe in atto dalla prima generazione novecentesca cresciuta in condizioni di benessere, regresso della mortalità, pace e scolarizzazione di massa. Ma, come abbiamo già accennato, le proteste non riguardarono solamente il mondo studentesco, ma anche quello del lavoro. Soprattutto in Italia, dove a partire dall’autunno del 1969 iniziò una stagione di mobilitazioni degli operai e di lotte sindacali conosciuta come “Autunno caldo”.

Le contestazioni fecero seguito alla scadenza triennale dei contratti di lavoro, in particolar modo, quelli dei metalmeccanici. Le rivendicazioni salariali, quindi, si aggiunsero alle manifestazioni degli studenti. I lavoratori scesero in piazza con i ragazzi.

La protesta operaia partì dalla Fiat di Torino, per poi diffondersi in tutta Italia, sostenuta dai sindacati, che avevano le loro rappresentanze nelle aziende, e dai loro partiti di riferimento. A livello nazionale i tre principali sindacati, la Cgil, la Cisl e la Uil agirono in sintonia tra loro, tanto da guadagnarsi l’appellativo di "triplice alleanza". A fronte di una condotta dura, da parte delle imprese, spesso disattente ad ogni cautela verso la forza lavoro e le sue esigenze, le tre confederazioni sindacali condussero e gestirono una aspra campagna di rivendicazioni, di campagne per il salario unico, per il rispetto dei contratti e per porre dei limiti alla facoltà delle aziende di licenziare lavoratori. Una campagna fatta con occupazioni delle fabbriche e scioperi, in cui non mancarono episodi violenti e scontri con le forze dell’ordine. Una contrapposizione che, per alcune frange oltranziste, divenne antagonismo ai rappresentanti della proprietà delle aziende. Ma, del resto, furono dure anche le reazioni degli imprenditori, dei padroni, decisi ad impedire che la forza lavoro avesse voce in capitolo sulle politiche aziendali, cosa considerata come un tentativo di intrusione nella gestione aziendale, da parte delle forze politiche di sinistra, attraverso i sindacati che sostenevano le battaglie dei lavoratori.

Naturalmente alle rivendicazioni operaie non furono sordi gli studenti che già manifestavano al grido «Studenti ed operai uniti nella lotta». Le questioni riguardanti le fabbriche, già argomento di vita quotidiana, erano discusse anche nelle aule universitarie, specialmente da quando si iniziò a vedere che gli effetti positivi del boom economico stavano svanendo, portandosi insieme le grandi speranze che lo avevano caratterizzato. Un diffuso malessere iniziò a espandersi in tutto lo stivale italico, al Settentrione come nel Mezzogiorno con rivolte, manifestazioni e scioperi nelle grandi città e nelle campagne. Si chiedevano maggiori diritti dopo tanti anni, decenni in cui i lavoratori erano stati costretti ad accettare ricatti, senza poter esercitare alcun diritto. Per la prima volta dal dopoguerra era in corso una denuncia così forte e diffusa delle condizioni lavorative.

«Ho vissuto quegli anni a Venezia, assistendo alle manifestazioni dei lavoratori del petrolchimico di Venezia. C’erano fiumane di persone» ricorda l’ex deputato Giuseppe Rossiello, rimarcando il merito che ebbero quelle rivendicazioni: l’aver portato alla conquista di diritti per i lavoratori.

Legandosi alla lotta operaia, il movimento del Sessantotto colse l’occasione per un impegno radicale di trasformazione della società. Trasformazione anche nella politica, con nuovi gruppi che non si riconoscevano più nei partiti storici della sinistra italiana e, anzi, li contestavano.

Del resto, lo abbiamo già visto parlando delle manifestazioni studentesche e dei movimenti che ne furono protagonisti, quando, riportando le parole del professor Sabino Lafasciano: «C’era una organizzazione nei movimenti, che, dalle scuole iniziarono a strutturarsi politicamente in diversi paesi del barese. C’erano rappresentanti nelle fabbriche, si collaborava con i sindacati, all’epoca molto forti, tanto da aggregare molta gente, c’erano comitati di lotta, circoli culturali».

Anche in Puglia e nelle industrie della nostra provincia, l’attivismo operaio fu molto presente, in quegli anni in cui stava sorgendo, ad esempio, la zona industriale di Bari, dove avevano cominciato a lavorare tanti lavoratori dai paesi viciniori, come Bitonto. I tanti gruppi giovanili si impegnarono per attivare legami con le fabbriche e con i quartieri operai. Attraverso azioni di volantinaggio davanti agli stabilimenti industriali del gruppo Breda (Fucine Meridionali), delle Officine Calabrese, Nuovo Pignone, Stanic.

Accompagnavano le varie iniziative slogan come “Basta con il fascismo nelle fabbriche”, “Il miracolo economico c’è solo per i padroni”.

«Si andava a vendere il giornale e a fare volantinaggio davanti alla Magneti Marelli, alla Fiat Om» ricorda ancora Lafasciano. 

Come già anticipato, quelle manifestazioni portarono al riconoscimento di nuovi diritti a favore dei lavoratori. Diritti che nel 1970 trovarono espressione nella legge n.300 del 20 maggio, il cosiddetto “Statuto dei lavoratori”, che tra un mese compirà i 50 anni. Lo statuto introdusse diritti per gli operai sia per quel che riguarda le condizioni di lavoro, sia per i rapporti con i datori. Ancora oggi è alla base della normativa in campo lavorativo.

Fu voluto dal ministro Giacomo Brodolini (Psi) e, alla stesura, lavorò il professor Gino Giugni, docente presso l’Università di Bari, dal cui manuale di diritto del lavoro continuano, ancora oggi, a studiare gli studenti universitari.

L’approvazione dello statuto servì a far stemperare i toni delle proteste, raffreddando l’”autunno caldo”. Ma, purtroppo, per poco. Non passò molto tempo prima che si riaccendesse quel clima violento che caratterizzo gli anni ’70.